Velleda Bolognari, Università degli studi di Messina
Recent publishing on the migration phenomena in the communitarian and globalized Europe, puts in evidence a fundamental racism which is capable of making cultural processes grow and feed both chaos and social disorder. As a matter of fact we are approaching the ending debates on multicultural citizenship as well as on solidary integration and antiracism. Since the appearing of these phenomena, namely the huge post colonial migration in the nineteen-eighties, by which the colonized countries became almost “emigrant nurseries”, one could expect their stabilization. On the contrary, globalization and migration (twin subjects) everywhere still produce, at various levels, social disturbances together with some chauvinistic limitations as an ultimate kind of western prosperity defense. The peculiar European features of this new racism, less than ideological (superiority, homogeneity and civilizing mission), are confined to the concepts of patriotism, inequality and exclusion. In these terms one can understand why the new economic expansionism and the quest for new world markets makes European policies unstable, which remain undecided between conservatism, liberalism and extreme right. All this explains at least two things: the existing ambiguities of some European policies aiming to enhance particular forms of protectionism, and the difficulties in which the antiracist thought seems to be embedded. Indeed, according to what Walter Lorenz has already made clear, by using a well founded methodology, which prevents any fruitless protestations, it is impossible to contrast racism and nationalism. In such context, the educational field should try to use an operative epistemology. In other words the antiracist thought should dispose of competences and skills and, especially, personal and reflective capabilities. All this in order to avoid that which, in different historical scenes, permit the revival of the sense of moral opprobrium could not be identified with the political alibi to maintain privileges as well as advantages for the exclusive benefit of wealthy countries.
In un’opera di qualche anno fa dal titolo Racism and Society, gli autori John Solomos e Les Back hanno messo a fuoco un particolare aspetto collegato con le questioni dell’immigrazione e dell’integrazione nelle società occidentali: quello della razza. Approfondendo e revisionando la letteratura scientifica e le relative teorie concernenti le idee razziste e di come esse mobilitino processi sociali e culturali, il testo analizza le forme mutevoli del razzismo, considerando elementi peculiari che vanno oltre le abituali teorie sociologiche che trattano l’argomento.
Sono numerosi gli autori che in Europa, da oltre un decennio, hanno approfondito il nesso inscindibile che correla la nuova immigrazione al razzismo. Si tratta di studi importanti anche per coloro che, occupandosi di ricerche pedagogiche ed interculturali, devono conoscere a fondo le possibilità di un approccio formativo secondo una dimensione dichiaratamente antirazzista. In tal senso, la ricerca pedagogica dovrà certamente riconoscersi nelle linee teoriche formulate dal tale pensiero e, laddove soprattutto emerge una certa affinità concettuale e un comune interesse di studi, far proprie quelle linee che, com’è ormai evidente, stanno tornando attuali nella nostra epoca. In tal modo, si potrà dare un significato specifico anche alle metodologie e agli itinerari pertinenti l’area formativa.
Scopo di questo contributo è quello perciò di riflettere, da un lato, su tali questioni da associare sicuramente alla svolta epocale e, dall’altro, di avvalersi dei contenuti storico-metodologici espressi dal pensiero antirazzista di Walter Lorenz, in quanto elaborati anche in riferimento ad un contesto di ricerca pedagogico-interculturale. La storia dell’originarsi degli Stati europei è una indagine che lo studioso conduce relativamente allo stabilizzarsi dei collegamenti tra società, stato e nazione e che ha come risvolto inquietante il prodursi del razzismo.
Nelle moderne società europee il razzismo ha però alcune componenti che si iscrivono in un ordine mondiale non più costruito ideologicamente sui principi della razza dominante, ma le cui caratteristiche riguardano, per lo più, la supremazia dei mercati globali occidentali.
Al giorno d’oggi, dunque, la “razza” e il razzismo non costituiscono più un principio egemonico finalizzato all’assoggettamento di popoli, come nel diciannovesimo e ventesimo secolo, con l’imporsi dell’imperialismo occidentale europeo, la colonizzazione dei territori, la missione civilizzatrice globale. L’idea della “razza”, costituiva allora il cuore stesso delle ideologie, determinando una concezione globale del mondo presente nell’arte, nella letteratura, oltre che nelle pratiche politiche dei nuovi Stati nascenti alla ricerca della loro stabile e potente identità nazionale (v. Lorenz 1995; Miles 1993).
Molte circostante e molti accadimenti recenti evidenziano il persistere del pensiero razzista che irrompe in una pluralità di contesti europei. Più che una resurrezione ideologica “old-style biological”, introdotta con l’abuso di “convincimenti” autoritari e paternalistici sulla presunta inferiorità delle razze e delle minoranze etniche del mondo metropolitano, questo pensiero ha talune specificità che “potrebbero completare le teorie politiche e sociologiche della razza e del razzismo nell’Europa contemporanea”(Mac Laughlin 1998, p.1013). Esso è però ugualmente e totalmente in grado di influenzare negativamente l’organizzazione territoriale dei paesi europei riguardo soprattutto i rapporti fra “nativi” e “stranieri”.
Le forme mutevoli del razzismo contemporaneo e le nuove “specificità” comportano certamente un’ampia articolazione delle teorie che collegano le politiche nazionali dei paesi europei alle questioni cruciali degli avvenimenti caratterizzanti questi anni, con il trasformarsi radicale delle società occidentali e che, riguardo nativi e stranieri, sono da attribuirsi alla modestia degli interventi politici, e del welfare, attuati in materia di immigrazione, di cittadinanza, di multiculturalità.
In tal senso, ricerche sociologiche e analisi geopolitiche evidenziano, sul territorio e in campo urbanistico, vari frazionamenti di carattere etno-razziale, ovvero segmenti pre-definiti di divisione - come separazione - dalle etnie nazionali che, da un punto di vista demografico, risultano segregazioni residenziali e concentramenti della povertà.
La razza e il razzismo hanno un’influenza percettibile e un ruolo determinante soprattutto nelle politiche locali allorché, ad esempio, le coalizioni di maggioranza devono prendere decisioni riguardo alloggi, educazione, assistenza sociale ed hanno, come obiettivo politico principale, l’amministrazione di beni e risorse con la necessità di non sconvolgere l’equilibrio economico e sociale.
Il ricorso alle categorie razziali avviene soprattutto gerarchizzando e frammentando l’intero corpo sociale, separando le popolazioni residenti tra “centro” e “periferia”, ovvero definendo e circoscrivendo le zone metropolitane residenziali in base allo sviluppo economico, sociale e culturale. Criteri selettivi di tipo etno-razziale, quasi un censimento distinto per classi sociali, vengono rigorosamente fissati in termini di diritti ed obblighi per quel territorio, laddove la disparità di trattamento, tra cittadinanze diverse, appare assai evidente. Etienne Balibar sostiene che nelle metropoli occidentali si sta compiendo una vera e propria “ricolonizzare dell’immigrazione” [1] .
Sono i gruppi etnici potenti, particolarmente le élite politiche, le cittadinanze pre-esistenti, ben organizzate politicamente, a selezionare gli indicatori culturali con i quali separare, allontanare, dividere ed escludere. L’accettazione della differenza culturale, da parte delle minoranze, facilita le strategie perché esse siano regolarmente poste al di là delle nuove frontiere - visibili o invisibili - che, come sostiene Balibar, le politiche migratorie europee continuano nuovamente ad edificare anche nel nuovo assetto costituito dall’Unione [2] .
La politica delle frontiere che aumenta le disuguaglianze e separa letteralmente, l’uno dall’altro, ricchi e poveri, nativi e stranieri, permanenti e temporanei, comporta l’indebolimento delle vie democratiche per l’accesso ai diritti di cittadinanza. In tema di disuguaglianze, c’è da pensare al fallimento delle politiche egalitarie espresse, con buone intenzioni, dalle democrazie liberali occidentali soprattutto se, nelle nuove società multietniche, viene adottato il modello dello Stato nazione. La difficile ricerca di “equilibrio” tra giustizia, libertà, equità, ovvero di categorie socio-politiche che garantiscono l’uguaglianza di trattamento, fa oscillare la stessa democrazia mettendone a repentaglio perfino la sopravvivenza.
Ciò perché, quel modello ripropone la distanza, interna ed esterna, fra le numerose etnie, urbane e suburbane, native e straniere, cioè dell’insieme variegato di cittadinanze che hanno posizioni differenti e disuguali nei territori di residenza, una vera e propria mappa delle geografie razziali dei paesi europei. Così, “nell’esaminare le geografie razziali di paesi tra loro divergenti come la Francia, la Gran-Bretagna, la Spagna, la Svezia, la Germania e i Paesi Bassi, si ottiene una visione critica dei processi sociali e degli sviluppi ideologici che hanno condotto alla recente insorgenza del razzismo nell’Europa occidentale”(Mac Laughlin p.1013).
Qualche anno fa Walter Lorenz, a proposito delle politiche che hanno portato alla costruzione degli Stati europei e che storicamente (all’indomani dei trattati di Versailles del 1919) sono state decisive per formazione delle identità nazionali (completata intorno al ventesimo secolo), osservava che gli Stati-Nazione, allora nascenti, definivano la propria identità, e così l’idea solida di “nazione”, anche dalla “loro capacità di sopravvivenza economica”(Lorenz 1995, p.23). Sottintesa, dunque, l’individuazione dei mezzi per produrre una ricchezza interna con politiche aventi forti implicazioni ideologiche, nazionaliste, espansionistiche.
Le politiche espansionistiche che seguirono, con la colonizzazione dei territori africani ed asiatici, sono state determinanti per creare, fino ai nostri giorni, l’ordine mondiale capitalistico grazie ad una combinazione di pratiche economiche di incontrastata potenza, basate sul dominio, lo sfruttamento, la negazione dei diritti. Il raccordo tra ricchezza e sviluppo nazionale ha determinato, nel corso di tempi storici caratterizzati da intensi mutamenti politici, tra cui guerre, genocidi, persecuzioni, ricostruzioni post-belliche (v. Hobsbawn 2000), la transizione capitalistica nell’intero mondo.
Da osservare che, nel frattempo, le regioni del mondo ex-colonizzate, soprattutto a partire dagli anni ‘80 in poi, si sono trasformate in “emigrant nurseries”, grembi di allevamento migratorio. E’ da quelle regioni, infatti, che sono stati spediti i primi migranti verso le regioni del nord Europa ed anche in America. I paesi ex-coloniali hanno favorito soprattutto l’immigrazione di guestworkers, ossia di lavoratori che, essendo in condizioni di miseria, vengono ospitati nei paesi ricchi “per fornire ai centri metropolitani una manodopera poco costosa ed abbondante”(Castles 2000, p. 270).
Con il mercato mondiale (globalizzazione) si è incrementata la politica espansionistica che, come osserva Stephen Castles, “è il risultato dell’integrazione delle comunità locali e delle economie nazionali nei rapporti globali”, in cui però gli stati nazionali non sono riusciti a pianificare la questione della mobilità internazionale e dei flussi migratori. A tal proposito, il sociologo americano Jan Nederveen Pieterse sostiene che globalizzazione e migrazione costituiscono twin subjects (v. Pieterse 2000), ovvero “gemelli” indistinguibili (forza economica e flussi migratori reciprocamente intrecciati in un processo considerato irreversibile). Da qui la nuova fase migratoria costituita dai movimenti di massa dei popoli, iniziata dopo la fine della guerra fredda, e che si può capire solo in un contesto globale. La situazione da allora è cambiata drammaticamente poiché anche i paesi dell’Europa mediterranea sono divenuti “emigrant nurseries”. Nell’isola di Lampedusa, cuore del Mediterraneo, giornalmente arrivano gruppi di clandestini che chiedono di essere accolti in Europa.
E’ plausibile pertanto che la riutilizzazione del concetto di razza e il razzismo, al giorno d’oggi, rientri nel processo di ammodernamento del capitalismo, dal quale trarre vantaggi con la nuova espansione economica. L’improvviso arrivo di ospiti inattesi (v. Marazziti 1993) rappresenta un problema spinoso per l’equilibrio e la stabilità politica, in quanto impegna i governi a trovare norme legislative in più, ad attuare riforme sul piano dell’accoglienza, ad elaborare quote massime per regolare ingressi e permessi, a mettere in movimento un sistema organizzativo articolato anche sul fronte della sicurezza (v. Peers 2002).
Questo enorme flusso di popoli che, inarrestabile, fugge dalla miseria e dalla povertà e si introduce nelle metropoli occidentali ha fatto interrompere tutti quei dibattiti sul pluralismo, il multiculturalismo e l’anti-razzismo, che avevano caratterizzato gli anni ’80, e sui modi di ampliare la democrazia, estendere la cittadinanza, includere le etnie esogene, migliorare il sistema del welfare (v. Wieviorka 1998; Sartori 2000; Semprini 2000).
E’ evidente che l’immigrazione internazionale costituisce una delle maggiori forze implicate nella trasformazione dei paesi europei, al punto che al giorno d’oggi, osserva Castles, “l’idea che la condizione di una nazione debba essere relativamente omogenea sta diventando sempre più difficile da sostenere”.
In fin dei conti, è la “globalizzazione che conduce inesorabilmente le varie società verso una cittadinanza multiculturale”(Castles 2000a, p. 280).
Lo sfondo storico, politico, ideologico, sebbene delineato in maniera assai sintetica permette di accostarci alla dimensione antirazzista che Walter Lorenz affronta come espressione di un pensiero da coltivare in più settori pedagogici e con programmi di formazione tendenti all’attivismo sociale (v. Lorenz 2006). Procedendo con un discorso di critica storica, egli analizza così il retroterra delle ideologie del nazionalismo e del fascismo secondo una “politica di delimitazione” che ha portato alla “creazione di una cultura nazionale unitaria e specifica” (Lorenz 1995, p.38). Ma, per altre vie, anche a ritrovare una nozione antiquata di patriottismo, utile per legittimare l’odio verso altre razze e a “rafforzare il senso di superiorità occidentale”.
Il patriottismo è un indicatore rilevante nella nostra analisi, in quanto rappresenta un codice di separazione. Il razzismo contemporaneo difatti non enfatizza la razza bianca né attribuisce ai caratteri fenotipici l’inferiorità delle altre razze per giustificare le forme di abuso. Rimane invece inalterato, in Occidente, il principio di “cultura superiore” che si è incarnato nelle politiche e nelle istituzioni economiche dominanti, dove mantiene una vitalità soprattutto nei discorsi ordinari. Non a caso il sistema di parlare tramite i media o di usare termini popolari aiuta a creare un senso comune e diffuso del razzismo, specialmente quando si determina un clima per incolpare le minoranze “devianti” dei problemi sociali. La cultura in comune, che ha una priorità etnica sulle altre, si trasforma in un modo comune di sentire il razzismo.
Con la politicizzazione dell’immigrazione che raccoglie il malcontento diffuso, l’inossidabile connubio tra nazionalismo etnia e razza si risveglia tra gli autoctoni che, così, si battono per la difesa della propria “identità nazionale” chiedendo ai loro governanti di porre dei limiti al cambiamento sociale e politico dentro il proprio paese, e soprattutto di frenare l’immigrazione.
Non si tratta di un vero e proprio nazionalismo ideologico, ma di un atteggiamento, un modo di pensare della gente che non vuole cambiamenti strutturali. L’insidia peggiore sta in quell’impersonale senso del dovere che vuole che i leaders nazionali difendano i cittadini (e la patria) dagli “invasori”.
Il fermento del patriottismo, come teoria separatista e di contrasto della miscegenation multiculturale, determina le strategie dell’esclusione che, a sua volta, rappresenta la strategia per bloccare i tentativi di realizzare l’uguaglianza sociale e politica. La disuguaglianza rende, infatti, più difficile l’integrazione delle minoranze e, allo stesso tempo, consente di mantenere i gruppi etno-razziali fuori dal “centro” e in condizione di svantaggio. Differenza etnica e disuguaglianza sono già condizioni di non-cittadinanza.
Tutto questo avviene in paesi dalle tradizioni pluraliste e democratiche ma che non hanno evidentemente risolto il collegamento quasi organico e viscerale tra la gente, la storia e la “patria”. Si crea così il dispositivo per rimettere in piedi, nello spirito conservatore di una tradizione che tende a cancellare la memoria storica (genocidi, olocausti, persecuzioni), una teoria razzista aggiornata, che porta a sventolare bandiere e a cantare inni alla patria come nei regionalismi più esasperati (v. Moioli 1990).
Si tratta di un razzismo di natura populista, ossia meno teorico e scientifico della versione precedente, laddove l’ideologia della superiorità della razza bianca aveva prodotto sistemi di incontrastato dominio, di oppressione e segregazione. Un razzismo tuttavia non amorfo, perché istituzionalizzato e che, dall’inizio della modernità, “è stato un elemento basilare della nostra società, al punto da aver avuto un ruolo cruciale per il progresso”(Castles 2000b). Adesso per realizzare la globalizzazione, ossia per trovare nuovi mercati e avere un progresso esageratamente illimitato, il razzismo è altrettanto importante.
Da osservare, a questo punto, che l’Europa non è una società razzista e, in quanto tale, nessun tipo di costrutto categoriale e ideologico potrebbe imporsi dall’alto alla realtà sociale. Allora è chiaro che sono piuttosto le costruzioni storiche e politiche a fare presa e a influenzare i settori pubblici e politici più organizzati e più vicini ai poteri dello stato, laddove si chiede il ritorno all’omogeneità e all’integrità occidentale, a cominciare dalla “purificazione della lingua e della cultura nazionale” [3] .
Il sentimento di precarizzazione e l’insicurezza, secondo quanto afferma Castles, incitano le cittadinanze nazionali a battersi “per una omogeneità legata al mito dell’unità politica, così come si è sviluppata a partire dal diciottesimo secolo”. Ciò che in molte società si va diffondendo è il proposito di impedire che nelle società multiculturali gli stranieri immigrati “diventino cittadini, nel senso di una compartecipazione alla cultura dominante” (Castles 2000a, p. 278).
Con il riaffiorare di un politica che in Europa oscilla tra liberalismo e conservatorismo, ovvero tra una libera dimensione economica e una ricerca di valori stabili (pur con le esigenze progressiste), il razzismo sembra ancora iscritto nella geografia morale dell’Europa contemporanea, benché i dibattiti sulle questioni della cittadinanza post-nazionale e sul declino del concetto di sovranità dello stato siano stati già avviati fin dal tempo del trattato di Maastricht (1992).
Nel momento in cui si prospetta la svalutazione del concetto di “nazione”, esplode l’ostilità verso gli stranieri che riporta in auge, osserva Walter Lorenz, la “metafora della comunità che i cittadini vogliono costruire grazie alle loro libere decisioni”. Questo perché l’identità etnico-nazionale “attrae” in quanto contraddistingue il gruppo etnico non perseguitato, non estraneo, non deviante, il gruppo delle persone perbene. Appartenere alla “nazione” infatti, dopo vari processi storici di inclusione, di esclusione, di assoggettamento di popoli e le persecuzioni degli estranei, fa ritenere doverosa la richiesta di conservare la raggiunta omogeneità sociale, culturale, istituzionale.
Un aspetto interessante di tale discorso è l’idea secondo cui, per Lorenz, razzismo e nazionalismo non sono equiparabili (Lorenz 1995, p. 38). Ma quel razzismo esploso all’epoca della costruzione degli Stati nazionali, rimane pur sempre l’abito da indossare in tutte quelle occasioni ritenute rischiose per l’unità nazionale, ad esempio con un aumento demografico del territorio o la crisi del welfare state, la diminuzione della sicurezza. Tra connazionali si ripresenta allora un sentimento identitario unitario, frutto dell’antica consapevolezza secondo cui patria, sovranità e autoctonia sono la stessa cosa.
Orientamenti sempre più estremisti legati alle difficoltà di governare problemi complessi, come le rivendicazioni avanzate in tema di diritti, gli atti recenti di violenza (come quelli accaduti nelle banlieues parigine), le minacce del terrorismo internazionale, stanno portando i governi di alcuni stati europei a rivedere le proprie posizioni sulle politiche di immigrazione e di integrazione. La società multiculturale sembra così avviata al declino. E’ questa l’idea di Paul Gilroy secondo il quale rivendicazioni e proteste, fatte con forza sempre maggiore dai gruppi più emarginati e discriminati, in paesi come la Gran Bretagna, evidenziano i limiti del modello di integrazione democratico e multiculturale. (v. Gilroy 2006).
Tutto ciò significa l’imporsi di un certo conservatorismo e delle posizioni estremiste, ovvero di orientamenti attraverso cui attribuire l’attuale “disordine”e il “caos” alla “natura estranea” degli invasori stranieri. La conseguenza è una ferma opposizione riguardo concessioni e riconoscimenti, in maniera da contrastare il pericolo delle intrusioni culturali e soprattutto per la “difesa della civiltà europea”. Disordine e caos invece, secondo gli studiosi, sono da considerarsi “fenomeni strutturali” e, come tali, devono attribuirsi alla globalizzazione del capitalismo in espansione (Mac Laughlin 1998, p. 1015). Ma nostalgie imperialiste che sono espressioni di una cultura dominante attraggono e, come nota Gilroy, velatamente ripristinano il senso dell’innata superiorità occidentale e la missione civilizzatrice globale.
Se il timore di un annacquamento dei valori culturali aumenta, aumentano anche le chiusure patriottiche e le blindature etno-nazionali con il sorgere delle “piccole patrie” da proteggere contro gli stranieri “parassiti” (spongers) e consumatori di risorse (v. King et ali. 2000). Con questi sentimenti radicati e assai vicini al culto nazionalistico e alla difesa oltranzista del suolo e della patria, si fa avanti quello “sciovinismo della prosperità” (chauvinism of prosperity) di cui parla Jan Nederveen Pieterse (p. 391).
Sciovinismo che, come atteggiamento duro di intransigenza, riassume un insieme di timori che includono l’impoverimento, la perdita dei benefici personali e collettivi che spettano di diritto solo a coloro che hanno lo statuto di cittadinanza territoriale (v. Franchini e Guidi 1991). Alla fine, come osserva Castles, è per questo che “la posizione degli immigrati è contrassegnata spesso da uno statuto giuridico specifico: quello di straniero o di non-cittadino”(2000a, p.278).
In ultimo, volendo contraddistinguere gli elementi che entrano in gioco per capire come mai il razzismo si sia riacceso, oggi, in Europa, possiamo configurarli sui tre elementi già considerati: un patriottismo esasperato (o anche identità nazionale), il mantenimento della disuguaglianze, l’esclusione.
Le specificità del razzismo contemporaneo, indicato spesso come “neo razzismo” (v.Van Dijk 2000) oppure “razzismo senza la razza”, sono utili in linea teorica per approfondire i differenti livelli di funzionamento di ciò che il filosofo israeliano Avishai Margalit ha definito come “moral opprobrium”, in riferimento alle crudeltà, ai maltrattamenti, alle ingiustizie, agli eccidi perpetrati regolarmente su individui e gruppi.
Le specificità non sono però astratte: sono interpretazioni di processi reali che avvengono all’interno di prassi che, se osservate nell’ambito dei rapporti sociali, assumono significati particolari ed emblematici riguardo fatti, ad esempio, implicanti l’ingiustizia sociale, le discriminazioni, l’accesso al potere e risorse da parte di gruppi differenti.
In ambito sociologico recenti studi americani prospettano un nuovo pragmatismo con cui dare concretezza alla azioni contro la brutalità, la prepotenza, l’autoritarismo, piuttosto che ricercare proclamazioni ufficiali con cui biasimare e condannare il razzismo. Anche perché parole come “razza” e “razzismo” sono talmente abusate che, spesse volte, si corre il rischio di essere fraintesi, allorché si inizia soltanto a trattare un argomento relativo alla razza o si tenta un dialogo interrazziale.
E’ questo il parere di Lawrence Blum, il quale suggerisce di approntare un “vocabolario morale” affinché si esca dalle categorie virtuali quando si devono indicare gli abusi e violenze o allorché si vogliono evitare fraintendimenti, oppure impedire che qualche cosa vada male o è erronea rispetto alla razza e al razzismo (v. Blum 2002).
“Moralmente” andrebbero inseriti, secondo lui, l’insensibilità razziale, l’ignoranza razziale, l’ingiustizia razziale, il disagio razziale, l’esclusione razziale. Per uscire dall’inflazione concettuale che quelle parole comportano, Blum propone, una definizione che sia in continuità con l’uso storico del concetto di razzismo. Si tratta di due forme basilari e distinte del razzismo adatte ad indicare questa condizione: l’avversione razziale e il razzismo inferiorizzante.
Ciò significa principalmente che le azioni sgradevoli o gli incidenti inter-etnici non hanno sempre origine da motivi razziali e che gli stereotipi di tipo razziale non provengono necessariamente da un orientamento “razzista”. E’ implicata piuttosto l’ideologia del privilegio e del potere, una superiorità che si esprime talvolta impalpabilmente con la boria e lo snobismo.
Il pensiero razzista è, in tal senso, la credenza o la dimostrazione pratica di un potere attraverso cui far percepire, ad un gruppo o a un singolo, la propria superiorità a causa di una avversione o di una antipatia verso quella razza, quel colore, quell’origine etnica, oppure verso l’arretratezza culturale e lo svantaggio geografico.
Ciò che si vuole dire è che “razza” e razzismo, con la loro incidenza forte sulla realtà, hanno un retroterra, un back-ground storico particolare, ma soprattutto un vincolo con le specifiche culture politiche e amministrative. Questo rende difficile l’affermarsi di un pensiero antirazzista dato che, a volte, esso diventa il manifesto di copertura (per Paul Gilroy the “coat of paint theory of racism”) di talune politiche economiche moderne.
Ma non bisogna dimenticare che nell’Europa post bellica c’è stata una lunga fase inibitoria, post-ideologica, degli atteggiamenti razzisti e la decostruzione del concetto ideologico di razza soprattutto dopo le vicende di crudeltà, l’Olocausto. Così come va ricordato che le profonde trasformazioni strutturali, la fine dei vecchi totalitarismi (fascismo e nazionalismo), il progresso scientifico e la ricerca, hanno permesso di coltivare, con spirito critico, sentimenti diffusi di anti-razzismo, la proclamata condanna del razzismo, la tutela delle vittime, ma soprattutto la comparsa di grandi reti di solidarietà per le popolazioni svantaggiate.
Occorre considerare anche l’apporto degli studi e l’interesse delle scienze umanistiche, antropologiche e sociali per le tematiche dell’etnicità che hanno dato valore ai significati delle culture originarie e incentivato il revival etnico (perfino con l’esplosione di feste, musiche, danze, sapori tradizionali). Un mondo di eterogeneità culturali, di folkore che in America ha poi dato origine a quelle che sono state indicate come le “unmeltable ethnics” (v. Novak 1995).
Queste riflessioni suscitate dalle analisi che, al di fuori da ogni aprioristico scetticismo, Walter Lorenz propone sull’origine storico-ideologico del razzismo e che evidenziano le difficoltà di sconfiggerlo disponendo dei soli strumenti della pedagogia e della conoscenza, portano a ritenere che il pensiero razzista - nel suo tragico sviluppo e nelle manifestazioni di crudeltà - sia ricorrente nella storia dei popoli.
Le particolari specificità e le configurazioni dipendono certamente da eventi storici, come le guerre, la storia delle persecuzioni, il conteggio delle vittime, e anche dall’imporsi di ideologie che, nel loro avvicendarsi, si affermano ricorrendo a strumenti politici e a metodi autoritari di convincimento.
Società, stato e nazione, interagendo, diventano espressioni ricalcanti il vecchio stampo ideologico con cui, in epoca anteriore, è stato facile accentuare razzismo ed estremismo. In Europa, residui di tale iniqua alleanza hanno ancora il potere spregevole di agire a livello istituzionale, individuale e di gruppo. I tre elementi che caratterizzano il razzismo contemporaneo nelle società europee (patriottismo, disuguaglianza, esclusione) incidono in tutti livelli e le sfere sociali.
Le disuguaglianze strutturali sono però generalmente da attribuire all’insufficienza delle leggi e alle carenze delle istituzioni democratiche, inadeguate alle sfide, ai problemi della convivenza multiculturale. Invece l’azione di esclusione riguarda il gruppo allorquando le popolazioni native reclamano barriere ed altri meccanismi di separazione. A livello individuale il razzismo si esprime con l’oppressione, il fastidio, la protesta, come le contestazioni fatte in Italia negli stadi sportivi contro i calciatori di colore.
Nell’epoca post ideologica, post nazionale, post moderna, ossia in una realtà storica contrassegnata da profondi mutamenti, laddove il mondo sta diventando più piccolo e più internazionale, nel quale emergono politiche unificatrici, come l’Unione europea, le differenze certamente continueranno ad aumentare. Attorno all’Europa si evidenzia già una cartografia di popoli in movimento, di viaggiatori, turisti, immigrati, rifugiati, richiedenti asilo, disperati. In questo quadro complessivo, appaiono affiancati popoli deterritorializzati e genti dislocate, costellazioni di gruppi minoritari, frammenti plurietnici, autoctonie disorientate, migranti cresciuti nel grembo del Mediterraneo e numerose fortezze che vogliono rimanere inespugnabili.
Che l’antirazzismo in Europa attraversi una crisi è allora evidente (v. Gilroy 1992), se si considera che è la stessa crisi che, in campo economico, sociale, culturale, politico, della sicurezza, si sta ripercuotendo sulle istituzioni democratiche. Ma poiché l’antirazzismo non è un “valore in sé” come la democrazia, occorrerà salvaguardare principalmente la democrazia, le sue istituzioni liberali, prodigarsi per la ricerca faticosa di programmi di inclusione, rinvenire prassi più “fresche” per una giustizia sociale dinamica ed emancipatoria. Occorrerà bloccare le critiche spietate di coloro che attaccano le istituzioni liberali in difesa di una prosperità da non dividere con nessuno.
Tutti i paesi liberali (e perciò l’Europa) hanno messo al bando il razzismo (v. Zincone 1994; Bonnett, 2000) e dato vita ai movimenti di solidarietà contro le discriminazioni, le ingiustizie sociali, la violazione dei diritti umani. Sono molti coloro che continuano a sostenere i diritti, anche in difesa della diversità, con il patrocinio di agenzie umanitarie sovranazionali, ad esempio l’UNESCO che fin dalla fine dell’ultima guerra ha avuto un ruolo fondamentale e che recentemente ha lanciato alcune importanti iniziative [4] .
In ultimo, poche riflessioni per capire quale direzione di senso e in quale contesto di formazione la pedagogia, che ha un filo diretto con l’antirazzismo, dovrà impegnarsi per realizzare quest’impegno. Riteniamo che essa debba utilizzare l’area formativa andando oltre, però, i modelli esplicativi e la conoscenza teorica e indiretta delle degenerazioni dei modelli sociali e politici. Il sovraccarico morale che si vuole suscitare, moltiplicando le giornate di memoria, non è sufficiente per dire stop al razzismo.
Servono innanzitutto competenze culturali che insegnino a saper vivere in un mix di etnie e culture, e a capire, direttamente e contestualmente, cosa vuol dire sperimentare i problemi del razzismo allorquando vacilla la posizione di vantaggio.
Da questo punto di vista l’esperienza formativa potrà insegnare che cosa significa invece lo svantaggio di stare nelle situazioni che sembrano insuperabili e intollerabili (v. Bolognari 2004). Si apprenderà così a confrontarsi con conflitti di grande intensità morale e psicologica; a ragionare con elementi tra loro inconciliabili; a smarrire la propria identità uscendo dalle semiologie di appartenenza.
Occorre riflettere, inoltre, sul fatto che il razzismo, nelle sue varianti ambigue, sta diventando un sintomo di conformità contro ogni nemico reale o presunto, una minaccia per resistere e inibire le nostre personalità che invocano omogeneità e uniformità. Riflettere sul fatto che le specificità delle persone non dipendono dal timbro dell’ etnia. Molte storie personali e collettive a volte dicono molto di più di quanto radici e attaccamenti sono in grado di fare nell’armonizzare la personalità culturale e morale degli individui.
L’area di formazione pedagogica si avvarrà, pertanto, di alcuni principi teorici, ad esempio la necessità di deculturalizzare le relazioni sociali per evitare dipendenze da modelli sociali e ideologici che costantemente si reinventano, specialmente quando si è in palese difficoltà o in situazione di asimmetria (si reinventano con il recupero del sospetto, del pregiudizio, dello stigma).
Diventa perciò importante che ognuno si stacchi dai contesti delle proprie appartenenze, evitando che il punto di vista della storia personale e collettiva di un popolo e di una nazione influenzi la relazione con gli altri. Si tratta di principi autoregolativi, dagli effetti maturativi e riflessivi, necessari per vivere nelle nuove società multiculturali, laddove l’ombra di un abuso lontanissimo, ancorato alla storia delle sopraffazioni e degli odi tra paesi un tempo distanti o in lotta, improvvisamente fa risorgere lo stigma del razzismo sotto forma di risentimento, di rabbia o di condizionamento. Si comincia a pensare all’integrità, all’idioma e si finisce con l’odiare profondamente l’altro, perfino colui che appartiene ad un’altra generazione, quindi ad un’altra realtà di vita, o colui che dell’antico conflitto è stato anche vittima.
In questa era di vicinanze e di confluenze, di chiusure élitaristiche, di separatismi, di etnie che pensano solamente alle “proprie tradizioni” culturali e folkloristiche (e sono tra le più integraliste), occorre la ricerca continua dell’equilibrio tra i tanti elementi pluriculturali e multietnici, per il loro reciproco adeguamento contro razzismo, odio e progressivo imbarbarimento.
[1] La politica della frontiera che per Balibar è duplice (esterna ed interna) costituisce una vera e propria etnicizzazione delle popolazioni indigenti, tanto da diventare una forma di “recolonisation de l'immigration" (Balibar 2001, p.77).
[2] "Une population infériorisée (en droits, donc aussi en dignité), tendenciallement soumise à des formes violentes de contrôle sécuritaire, qui doit vivre en permanence sur la frontière, ni absolument à l’interieur ni totalement à l’exterieur" (Ibidem, p. 309).
[3] In Italia e in Francia accade che ultras di destra chiedano una purificazione della cultura nazionale della lingua, “come misura di sicurezza contro il declino nazionale cui conduce invece il miscelamento culturale” (Mac Laughlin 1998, p.1022).
[4] Ci riferiamo all’iniziativa lanciata nel marzo 2004 dall’UNESCO, The International Coalition of Cities against Racism , per stabilire una rete delle città interessato a partecipare alle esperienze per migliorare le loro politiche per combattere il razzismo, la distinzione e la xenofobia. La coalizione è stata sottoscritta, su iniziative dell’UNESCO, nella città di Norimberga (Germania) nel luglio del 2004, alla presenza di rappresentanti delle città che già hanno aderito. Include un Piano d’azione articolato in dieci punti fondamentali..
Alotta, S. 1997: Italia e Spagna di fronte all’immigrazione, in: Critica Sociologica, pp.122-123.
Balibar, E. e Wallerstein, I. 1991: Razza, nazione, classe. Le identità ambigue. Roma: Ed. Associate.
Balibar, E. 2001: Nous, citoyens d’Europe? Les frontières, l’État, le peuple. Paris: La Découverte.
Bolognari, V. 2004: Intercultura, paideia per una nuova era. Lecce: Pensa Multimedia.
Bonnett, A. 2000: Anti-Racism. London: Routledge.
Blum, L. 2002: Racism: what it is and what it isn’t, in: Studies in Philosophy and Education, pp. 203–218.
Castles, S. 2000a: Global Trends and Issues: International Migration at the Beginning of the Twenty-First Century, in: International Social Science Journal, 165, pp. 269-281.
Castles, S. 2000 b: Ethnicity and globalization: from migrant Worker and tarnsational citizen. London: Sage.
Crespi, F. e Segatori, R. (eds.) 1996: Multiculturalismo e democrazia. Roma: Donzelli.
Detienne, M. 2004: Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali. Firenze: Sansoni.
Franchini, R. e Guidi, D. 1991: “Premesso che non sono razzista”. L’opinione di mille modenesi sull’immigrazione extracomunitaria. Roma: Editori Riuniti.
Gilroy, P. 1992: The end of anti-racism, in: Donald, H. e Rattansi, A. (eds.): Race, culture and difference. London: Sage.
Gilroy, P. 2006: Dopo l’impero. Qual è il futuro del multiculturalismo? Roma: Meltemi.
Hobsbawn, E. 2000: Il secolo breve. L’epoca più violenta della storia dell’umanità. 1914.1991. Milano: Bur.
King, R. (ed.) 2001: The Mediterranean Passage: Migration and the New Cultural Encounters in Southern Europe. Liverpool: Liverpool Univ. Press.
King, R., Lazaridis, G. e Tsardanidis, C. (eds.) 2000: Eldorado or Fortress? Migration in Southern Europe. London: Macmillan.
Kraus, N. 2004: The significance of race in urban politics: The limitations of regime theory, in: Race and Society, 2, pp.95-111.
Lorenz, W. 1995: L’educazione della nazionale. La politica dell’identità nazionale, in: Aluffi Pentini, A. e Lorenz, W. (eds.): Per una pedagogia antirazzista. Teorie e strumenti in prospettiva europea. Bergamo: Junior.
Lorenz, W. 2006: Antrirassismus und Soziale Arbeit in Europa. Versuch einer Standortbestimmung, in: Otto, H.-U. e Schrödter, M. (eds.): Soziale Arbeit in der Migrationsgesellschaft, Multikultiralismus, Neo Assimilation, Transnationalität. Lahnstein: Neue Praxis Verlag.
Mac Laughlin, J. 1998: Racism, ethnicity and multiculturalism in contemporary Europe: a review essaye, in: Political Geography, 8, pp. 1013-1024.
Marazziti, M. et al. (eds.) 1993: L’ospite inatteso: razzismo e antisemitismo in Italia. Brescia: Morcelliana.
Margalit, A. 1996: The Decent Society. Cambridge: Harward Univ. Press.
Martiniello, M. (ed.) 1995: Migration, Citizenship and Ethno-National Identities in the European Union. Avebury: Aldershot.
Martiniello, M. 2000: Le societa multietniche. Bologna: Il Mulino.
Miles, R. 1993: The Articulation of Racism and Nationalism, in: Solomos, J. e Wrench J. (eds): Racism and Migration in Western Europe. Oxford: Berg Publishers.
Moioli, V. 1990: I nuovi razzismi. Miserie e fortune della“Lega Lombarda”. Roma: Edizioni Associate.
Novak, M. 1995: Unmeltable Ethnics: Politics and Culture in American Life. New York: New Brunswick.
Nussbaum, M.C., Rusconi, G.E. e Viroli, M. 1995: Piccole patrie, grande mondo. Milano: Reset Donzelli.
Peers, S. 2002: Key Legislative Developments on Migration in the European Union European, in: European Journal of Migration and Law ,4, pp. 85-126.
Pieterse, J.N. 2000: Globalization and human integration: we are all migrants, in: Futures, 5, pp. 385-398.
Sartori, G. 2000: Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica. Milano: Rizzoli.
Semprini, A. 2000: Il Multiculturalismo. La sfida della diversità nelle società moderne. Milano: Franco Angeli.
Smith, A. D. 1986: The ethnic origins of nations. Oxford: Blackwell.
Solomos, J. e Back, L. 1996: Racism and Society. London: Macmillan.
UNESCO 2005: The European coalition of cities against racism. Oxford (UK) and Malden (USA): Blackwell Publishing Ltd.
Ungaro, D. 2004: Le nuove frontiere della sociologia politica. Roma: Carocci.
Van Dijk, T. 2000: New(s) Racism: A discourse analytical approach, in: Cottle, S. (ed.): Ethnic Minorities and the Media. Milton Keynes: Open University Press.
Wieviorka, M. 1998: Is multiculturalism the solution?, in: Ethnic and Racial Studies, 5, pp. 881-910.
Zincone, G. 1994: Uno schermo contro il razzismo. Per una politica dei diritti utili. Roma: Donzelli.
Dr. Velleda Bolognari is Associate Professor in the Department of Education at the “Università di Messina” in Messina, Italy. She has done principal work in intercultural and social fields.
Presently she acts as the liaison (and faculty contact) for various international organizations, such as Erasmus. In addition, she also represents her Faculty in ECCE (European Centre for Community Education) and TISSA (The International Social Work & Society Academy).
She is the author of many articles, essays and volumes. Her most recent books include: Il futuro delle relazioni interculturali. Ricerche, strumenti metodologici, orientamenti educativi, editor (Lecce, 2006); Intercultura, paideia per una nuova era (Lecce, 2004); Povertà, migrazione, razzismo.Il lavoro sociale ed educativo in Europa, ed. with K. Kühne (Bergamo, 1998).
Author´s Address:
Ass Prof Velleda Bolognari
Università di Messina
Department of Education
Via Concezione, 6-8
I-98122 Messina
Italia
Tel: ++39 90 361349
Email: velleda.bolognari@unime.it
urn:nbn:de:0009-11-10368